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Da La
scuola di Atene Euclide e i suoi allievi |
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BEIRUT
- Questa è la storia di un'ossessione, di due rette parallele
che non si incontrano mai, dei dieci (presunti) modi per
dimostrarlo, ma soprattutto dei dieci anni e delle quindici
ore al giorno che un uomo ha dedicato per riuscirci. Se
diranno che ce l'avrà fatta otterrà un posto nella storia e
avrà salvato, questo ritiene, l'edificio della geometria
euclidea, la base della filosofia kantiana e il principio di
una verità che, inesorabile come una retta, porta a Dio. Se
diranno che i suoi studi non provano nulla, brucerà diecimila
quaderni e ricomincerà daccapo, perché, di questo è certo,
senza una geometria logica l'universo è caos, il cielo è vuoto
e l'esistenza è priva di senso.
Il punto da cui tutto
comincia è fissato all'incirca al 300 a. C., epoca in cui
visse il matematico Euclide. La sua geometria si fonda su
alcuni postulati, asserzioni che, a differenza dei teoremi,
non hanno bisogno di essere dimostrate. Sui banchi scolastici
l'enunciazione di un postulato suscita il disagio degli
spiriti liberi che, pur cogliendone l'evidenza, intuiscono una
parentela con i dogmi che verranno, nella politica, nel
diritto e nella fede. Il quinto postulato di Euclide afferma:
"In un piano, per un punto esterno a una retta è possibile
condurre una e una sola parallela alla retta data e le due
rette non si incontreranno mai". L'immagine che evoca è quella
di rotaie di un binario dirette verso una stazione che non
c'è. Niente come le "rette parallele destinate a non
incontrarsi mai" ci parla, usando un diverso linguaggio, di
ineluttabilità ed eternità.
Quel piano è il
nostro spazio di esistenza, quel punto al di fuori della retta
tutto quello che non siamo e all'infinito non saremo perché la
parallela, l'altra possibilità, scorre sempre tenendosi e
tenendoci a debita distanza. C'è bisogno di dimostrarlo? Ci
hanno provato in molti, invano: Tolomeo e il persiano El
Tussi, il gesuita Saccheri (che tentò per assurdo, aprendo le
porte a geometrie parallele) e John Wallis (per similitudine).
Carl Friedrich Gauss lo dichiarò indimostrabile. Persi in un
gioco di scatole cinesi, Beltrami e Houel pretesero di
dimostrarne l'indimostrabilità. Nessuno riuscì in nulla.
Intanto Lobachewsky e Riemann creavano la geometria iperbolica
e quella ellittica, alternative a quella ecuclidea, e il
pensiero kantiano perdeva il proprio fondamento di verità.
Poi, nel 1939, in un villaggio libanese chiamato
Ehmej, non lontano da Byblos, nasceva Rachid Matta,
autoproclamato erede della tradizione di Talete e Pitagora.
Suo padre era un proprietario terriero e aveva la
caratteristica di azzeccare le misure esatte di un
appezzamento con lo sguardo. A sette anni Rachid sentiva
nominare per la prima volta Euclide. A nove, il quinto
postulato. A ventuno si laureava in matematica. Prendeva anche
la patente, ma smetteva di guidare al primo incidente,
provocato dal fatto che si distraeva dalla guida calcolando
gli angoli delle curve e ricavandone ulteriori problemi. Si
trasferiva a Parigi dove conseguiva due master: ingegneria e
statistica. Progettava costruzioni e insegnava numeri. Nella
sua testa non c'era e non c'è quasi altro. Mi dirà, perfino,
che "Dio gioca geometricamente" e che "la Trinità funziona".
Il luogo dove mi dà appuntamento è l'armeria della sorella, a
Jouneh, sul mare a pochi chilometri da Beirut. Lo trasporta la
moglie May. Hanno un figlio che è stato decisivo per il
secondo metodo di dimostrazione dell'ex quinto postulato, ora
forse teorema, di Euclide. Prima di spiegarmi la sua
ossessione il professor Matta gioca sei numeri al lotto per la
sorella. Nel farlo precisa che il solo metodo di vincita
sicura richiede di puntare con quarantadue schede,
scommettendo dieci milioni di lire libanesi. "Purtroppo -
aggiunge - il montepremi è di un solo milione e non posso
provare di avere ragione".
Raggiunge un tavolo, ci
distende sopra fogli coperti di disegni e numeri, le parole
sono in francese. Dopo gli anni di Parigi, mentre in Libano
c'era la guerra civile, emigrò negli Emirati, progettò edifici
e ponti ad Abu Dhabi. Fu un lavoro ben pagato, gli permise di
ritirarsi precocemente: decise di riprodursi e dedicarsi alla
sua passione. Dodici anni fa ebbe un figlio, da dieci non fa
altro che studiare le rette parallele che non s'incontrano
mai. Mette la sveglia alle quattro del mattino. Calcola e
scrive (diecimila quaderni in dieci anni, tutti conservati al
terzo piano di una villa in montagna) fino alle sette. Da lì
al tardo pomeriggio legge (algebra, geometria, filosofia,
qualche poesia "perché è come la soluzione di un problema").
Al tramonto riprende a scrivere. Se guarda un film, tiene un
blocco di appunti a portata di mano: tutto è geometria. Se
dorme, capita che si risvegli dopo tre minuti per l'impellenza
di tracciare una bisettrice.
Gli chiedo dov'era l'11
settembre 2001. Risponde che stava studiando e non si è
lasciato distrarre perché "nel lungo periodo il suo problema
era troppo più rilevante". Ma, come molti più noti prima di
lui, non sapeva risolverlo. Il 3 ottobre seguente morì sua
madre. Lui restò alla scrivania e proprio quella notte arrivò
al primo metodo di dimostrazione: quello che utilizza la
coincidenza di due angoli qualunque. Ci lavorò per un mese e
poi dovette ammettere: funzionava. Chiuse i disegni in una
cassaforte. Diede le chiavi alla moglie e le disse: "Se mi
succede qualcosa, portali all'Università".
Qualche
mese più tardi, nei cinquanta minuti di percorso in auto da
Byblos alla villa tra i monti, mentre la moglie guidava e il
figlio Jawad giocava tirandogli i capelli, ebbe la seconda
intuizione, che battezzò appunto metodo di Jawad. Ne seguirono
altre otto (più una considerata appendice). Dice che le
soluzioni continuavano a sbocciargli davanti e non voleva
lasciarli ad altri. Pensa che a Tolomeo e perfino al gesuita
Saccheri sia mancata la guida dello Spirito Santo. Afferma di
aver controllato per tre anni, su centinaia di libri, il suo
primo metodo e di ritenerlo senza falle. Ha spedito l'esito
dei suoi studi all'Accademia delle Scienze in Francia, a
Heidelberg in Germania, è pronto a fare un fax alla Normale di
Pisa.
Quando parla delle geometrie non euclidee tutta
la faccia gli si scompone per il disgusto di una visione
infetta, anarchica e atea. L'universo, ritiene, ha bisogno di
una logica, di un fondamento di pensiero, di un linguaggio
eterno che colleghi l'uomo a Dio e questo tramite è la
geometria dimostrata, in cui la somma degli angoli di un
triangolo è inferiore a 180° e due rette parallele, per
ragioni non solo intuibili ma spiegabili, vanno ognuna per la
propria strada. Attende con fiducia il verdetto delle
università europee sui suoi studi.
Della loro validità non posso
giudicare. Se avrà ragione chiede non tanto che il suo nome
entri nei sussidiari, ma che ne escano le geometrie eretiche
ispiratrici del caos. Poi, bisogna pur chiederglielo:
professore e se in questi dieci anni e diecimila quaderni
avesse fatto scarabocchi senza valore? Non esita neppure un
secondo. Risponde: "Sono un uomo d'onore. Vado in televisione
e dico che ho sbagliato. Poi ricomincio. Perché quella retta
parallela è il cammino verso l'eternità e Dio: se non c'è una
ragione a sostenerla, cadiamo nel vuoto".
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